I Pionieri dell’informatica: Mario Tchou

Cenni biografici

Mario Tchou-Wang-Li nasce a Roma il 26 giugno 1924. Il padre. Yin Tchou, grazie alla sua conoscenza dell’italiano, nel 1918 aveva ottenuto un incarico presso l’ambasciata cinese di Roma e a Roma si era sposato nel 1921. Dal matrimonio nascono tre figli, che seguono il normale corso di istruzione dei giovani romani.
Mario conserverà sempre il suo passaporto della Cina nazionalista di Formosa (Taiwan).
Il giovane italo-cinese si distingue per gli spiccati interessi umanistici e scientifici, rivelandosi attento ad ogni novità e innovazione. Nel 1942 consegue la maturità al Liceo Torquato Tasso e si iscrive alla Facoltà di Ingegneria dove supera gli esami del primo biennio.
Terminato il conflitto mondiale, sotto consiglio del padre, parte per gli Stati Uniti e nel 1947 si laurea in ingegneria elettrica presso la Catholic University di Washington.
Quindi prosegue gli studi presso il Polytechnic Institute di Brooklin, dove nel 1949 consegue un master in fisica nucleare.
Lo stesso anno si sposa a New York con Mariangela Siracusa sua coetanea che studiava alla Columbia University.
Dopo aver insegnato al Manhattan College, nel 1952 diviene professore associato in ingegneria elettrica presso la Columbia University.
Qui la sua carriera di studioso e ricercatore si orienta decisamente verso il mondo dell’elettronica.
A cambiare tutto sarà l’incontro con un imprenditore visionario: Adriano Olivetti.

La svolta della vita

Nell’agosto 1954 Adriano Olivetti incontra Tchou a New York presso la sede della Olivetti Corporation of America.
L’Olivetti è da tempo interessata agli sviluppi dell’elettronica: nel 1952 ha aperto un laboratorio di ricerche elettroniche a New Canaan (Connecticut), ma ora Adriano, forse consigliato dal fratello Dino e dal figlio Roberto, pensa a un salto di qualità.
Tchou era stato segnalato all’imprenditore di Ivrea da Enrico Fermi, che già da qualche anno stava cercando di convincere l’Olivetti a investire sull’elettronica.
L’ingegnere si presentò per sostenere il colloquio presso la sede americana della Olivetti, ma le domande che gli fece l’industriale non riguardarono la tecnologia.
Tchou raccontò che durante il colloquio, Olivetti sembrava più interessato a conoscere aspetti sociali e relazionali piuttosto che quelli tecnici e ciò lo colpì positivamente.
Così l’ingegnere italo-cinese decise di accettare l’offerta di lavoro e di far rientro in Italia, anche per ragioni familiari.
Agli inizi è praticamente da solo, finché il 7 maggio 1955 l’Olivetti, aderendo a una richiesta dell’Università di Pisa, firma una convenzione che la impegna a collaborare al progetto di un calcolatore scientifico (la “CEP – Calcolatrice Elettronica Pisana”).
L’accordo prevede che l’Olivetti contribuisca al progetto con un finanziamento annuo e con la presenza di due suoi ingegneri e due tecnici.
Tchou viene quindi “prestato” all’Università di Pisa, ma dopo pochi mesi l’Olivetti, senza abbandonare la collaborazione con l’Università, ritorna al suo progetto originario e il giovane ingegnere viene posto a capo del neo-costituito Laboratorio di Ricerche Elettroniche (LRE).

Lavorare al futuro

La selezione del personale da assumere per LRE non è un impegno secondario per Tchou: in Italia l’elettronica è ai primi passi e si tratta di selezionare con cura giovani laureati che difficilmente hanno alle spalle esperienze aziendali in questo campo.
Alla fine del 1955 il Laboratorio conta 25 dipendenti che due anni più tardi salgono a 50; alla fine del 1961 saranno circa 700, compresi gli addetti alla produzione.
Il Laboratorio si sistema in una villetta a Barbaricina, sobborgo di Pisa, dove il lavoro si svolge in modo molto informale.
L’entusiasmo per una sfida tanto innovativa e stimolante, la condivisione degli obiettivi e la sapiente guida di Tchou, che a ciascuno affida compiti ben precisi, consentono al progetto di progredire rapidamente.

Chi ha lavorato a Barbaricina ricorda l’intensità del lavoro e dei legami di amicizia, il forte senso di appartenenza al gruppo, il rispetto per le indiscusse competenze tecniche di Tchou e per le sue grandi doti umane e capacità organizzative.
L’organizzazione era in effetti una questione fondamentale.
Si trattava di guidare un gruppo di giovani brillanti e motivati, ma impegnati in un progetto che li costringeva a muoversi su un terreno arduo e allora poco conosciuto.
E poi bisognava mantenere buoni rapporti con Ivrea, che per i ricercatori di Barbaricina doveva sembrare lontanissima.
Tchou poteva contare sul sostegno di Adriano Olivetti, del figlio Roberto e di pochi altri manager sensibili al richiamo della nascente tecnologia, ma la grande massa dell’Azienda ignorava l’utilità e forse anche l’esistenza del nuovo progetto.
Occorreva dunque dimostrare molto presto la concreta utilità del gruppo di Barbaricina.

La nascita dell’Elea

Nel 1957 il gruppo realizzò il primo prototipo del nuovo elaboratore, l’Elea 9001 (o “Macchina Zero”), che era a valvole e quindi di grandi dimensioni.
L’anno successivo seguì l’Elea 9002 (o “Macchina 1V“), più veloce della versione precedente e considerata il prototipo di una macchina commerciale.
Tchou, tuttavia, ne sospese il lancio sul mercato poiché intuì che grazie all’emergente tecnologia dei transistor sarebbe stato possibile costruire una macchina senza valvole, più veloce e meno costosa.

Il laboratorio da Barbaricina fu poi spostato a Borgolombardo, in provincia di Milano, dove dopo poco tempo il team guidato da Tchou riuscì a portare a compimento il progetto.
A novembre del 1959 Adriano Olivetti presentò al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi l’Elea 9003, il primo computer italiano totalmente a transistor.
Chiamato anche “Macchina 1T”, era un prodotto d’avanguardia per l’epoca, arrivato alcuni mesi in anticipo rispetto al primo computer a transistor dell’Ibm, allora leader nell’elettronica.

Ad occuparsi del design era stato Ettore Sottsass, che aveva messo al centro l’uomo e non la macchina, realizzando una console dalla forma ergonomica e coi comandi facilmente alla portata dell’operatore.
Grazie all’Elea 9003, nel 1959 Sottsass si aggiudicò il Compasso d’oro.
Nello stesso anno l’Elea 9003 venne presentata alla Fiera campionaria di Milano e l’anno successivo venne consegnata al primo cliente, la Marzotto di Guadagno.
In totale, furono venduti circa 40 esemplari a grandi aziende, banche e enti pubblici.

Intelligenza e visione di un genio

La scelta di puntare sui transistor in quel momento non era priva di rischi, ma è sintomatica della capacità di visione di Tchou, che già aveva sostenuto l’utilità per l’Olivetti di partecipare alla creazione della SGS, prima azienda italiana nel campo dei semiconduttori, e che ora si mostrava sicuro che il futuro appartiene ai transistor.
Tchou ha un ruolo importante anche nello sviluppo del controllo numerico applicato alle macchine utensili.
É lui che nel 1959 incontra il canadese Joe Ebling, lo convince a collaborare con la Olivetti e convince l’Azienda a investire in questo campo. Pochi anni più tardi l’Olivetti diventerà un leader internazionale delle macchine a controllo numerico.
Nonostante il clamore suscitato dall’annuncio dell’Elea, Tchou è ben cosciente dei limiti della macchina: è all’avanguardia dal punto di vista strettamente tecnologico, ma non è priva di problemi sul piano delle applicazioni.
Solo nel settembre 1960 l’Olivetti può consegnare un Elea 9003 al primo vero cliente, la Marzotto. Nei successivi 4-5 anni saranno consegnati una quarantina di Elea 9003.
Nel 1960 fu realizzata l’Elea 6001, un calcolatore di minor costo e dimensioni orientato ad applicazioni di carattere scientifico e rivolto quindi per un’utenza media come istituti universitari, enti pubblici e media industria.

La morte e le ombre

La scomparsa di Adriano Olivetti, il 27 febbraio del 1960, aveva messo in luce una certa fragilità dell’azienda.
Le sue idee furono considerate troppo avveniristiche e Roberto Olivetti, il figlio che prese in mano l’azienda, non aveva il carisma del padre.
L’acquisizione nel 1959 della Underwood, colosso americano di macchine da scrivere in gravi difficoltà finanziarie, e la creazione della divisione di elettronica, con a capo Mario Tchou, comportarono ulteriore indebitamento.
La visione di Tchou era in anticipo di dieci anni rispetto agli studi di americani e russi.
L’ingegnere italo-cinese riprese i contatti che si erano interrotti dopo la morte di Olivetti e aveva pianificato un viaggio in Cina a Pechino e poi negli Stati Uniti per trovare nuovi mercati e sinergie per la nascente tecnologia italiana.
Tuttavia le autorità italiane lo avvisarono che se fosse entrato in Cina non ne sarebbe più uscito.
Le sue competenze in elettronica facevano gola al regime di Mao e allo stesso tempo il suo passaporto di Taiwan lo rendeva inviso al governo comunista, così decise di annullare tutto.
In quel delicato periodo storico i sovietici stavano sviluppando sofisticati missili balistici, motivo per cui gli Usa misero in atto azioni di intelligence, spendendo milioni di dollari, per carpire aggiornamenti tecnici da altri laboratori di ricerca.

La mattina del 9 novembre 1961 Tchou parte da Milano per andare a Ivrea e discutere con la direzione di una fondamentale miglioria al software dell’Elea 9003 che avrebbe sbaragliato la concorrenza americana; ma sull’autostrada nei pressi di Santhià l’auto su cui viaggia si scontra frontalmente con un furgone.
Il giovane ingegnere e l’autista, nel terribile schianto, muoiono sul colpo.

Come riportò il quotidiano La Stampa dell’epoca, il suo giovane autista, Francesco Frinzi, era un guidatore esperto.
L’auto su cui viaggiavano era una imponente Buick Skylark, lunga cinque metri acquistata in Svizzera.
Dotata di tutti i comfort con alzacristalli elettrici e un potente motore V8, era un’auto che si notava sulle strade dell’epoca, ove circolavano solo Topolini e Fiat 600.
Tchou si era sistemato dietro e approfittava di quel viaggio per lavorare.
Nei pressi dello svincolo per Santhià, la Buick si schiantò contro un autocarro, OM Leoncino, guidato da un autista anziano il quale dichiarò: «La Skylark era nella corsia centrale, in quanto aveva appena superato un altro camion, e tornando nella sua sbandò da un lato. Troppo vicino al mio Leoncino per riuscire a evitarlo».
Per Tchou e l’autista la morte fu immediata.

Le indagini sull’incidente furono chiuse frettolosamente dalla polizia.
Le prove si limitavano alla testimonianza dell’anziano autista bergamasco del camion.
Secondo la giornalista Meryle Secrest, autrice del libro inchiesta “Il caso Olivetti”, il tentativo di Adriano Olivetti e di Mario Tchou di contattare Unione Sovietica e Cina si sarebbe scontrato con gli interessi degli USA, i quali non potevano permettere alla Olivetti di far accedere le due potenze nemiche a segreti industriali di grande interesse.
L’unica certezza, in quello strano incidente, è che quel mattino piovoso si schiantò la via italiana alla Silicon Valley, precludendo per sempre all’Italia un primato al quale, fino a quel momento, avrebbe potuto ambire.

L’eredità

Dopo la scomparsa in soli due anni delle figure chiave di Olivetti e Tchou, la divisione elettronica della Olivetti fu dismessa e nel 1964 fu ceduta all’americana General Electric e l’Italia perse per sempre il suo primato.
Elea 9003 rimase il capolavoro della Olivetti guidata da Mario Tchou, un ingegnere metà italiano e metà cinese, che in pochi anni aveva spinto il mondo molto più avanti, con un’accelerazione che, forse, gli costò la vita.

A sessant’anni dalla sua scomparsa, l’eredità di Mario Tchou nel campo della tecnologia e anche in quello culturale, incarna l’eccellenza italiana e inoltre rappresenta una testimonianza d’integrazione fra culture diverse.
Nel 2019 all’incontro organizzato a Milano per celebrare il 60esimo anniversario dell’Elea 9003, il nipote di Mario Tchou lo ha ricordato così: “Mio zio, come i geni, era dotato di una grande umanità. Era profondamente italiano e, allo stesso tempo, era profondamente e completamente cinese.”