Le lenti del presente
Gli uomini sono per natura poco inclini a immaginare concretamente un futuro che non sia la proiezione lineare del loro presente.
Quando ciò avviene è sempre in termini immaginari, dove i futuri assumono tratti distopici e toni apocalittici.
L’uomo che vive il proprio tempo difficilmente riesce a vedere nel flusso degli eventi in cui è calato uno stacco netto, quella cesura che separa un’epoca da un’altra.
Invece la storia delle civiltà umane è fitta di salti di paradigma, spesso in virtù del presentarsi di una singolarità tecnologica che immediatamente non viene avvertita come tale ma che nel tempo mostra un’accelerazione in cui il progresso va oltre la normale capacità di comprendere e prevedere degli esseri umani.
L’introduzione sempre più massiccia delle Intelligenze Artificiali nel tessuto della vita quotidiana ci mostra esattamente questa forma di presbiopia intellettuale tipica degli uomini per la quale si vedono benissimo le cose da lontano ma in modo molto sfocato quelle vicine.
Il mondo sta cambiando più rapidamente di quanto eravamo in grado di concepire anche solo vent’anni fa e la velocità esponenziale del mutamento non consente previsioni certe.
Quello che sappiamo, guardando a ritroso la storia della nostra civiltà, è che ogni grande rivoluzione scientifica ha modificato più o meno rapidamente gli stili di vita, le condizioni economiche e i modelli culturali della società.
E se la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, ossia l’introduzione massiva delle I.A. nei processi di produzione, viene interpretata come un sovvertimento di portata planetaria, risulta subito evidente come sia necessario ora più che mai porre attenzione ai segnali che arrivano sempre più copiosi dal nostro presente.
Inforcando gli occhiali di una critica disincantata e slegata dai facili entusiasmi che seguono le grandi scoperte, possiamo osservare una prima e fondamentale certezza: i cambiamenti che le I.A. apporteranno alla vita umana saranno dirompenti e porteranno alla dissoluzione del lavoro e, di riflesso, dell’homo laborans per come lo abbiamo conosciuto.
Le I.A. (non sono) venute dal nulla
Le I.A. che sempre più spesso balzano agli onori della cronaca sopratutto nelle loro applicazioni generative (un esempio su tutti la chiacchierata ChatGPT) non sono apparse dal nulla.
La loro introduzione nella vita dell’uomo ha una storia relativamente breve ma densa, di cui vale la pena tratteggiare l’ultima parte.
Partendo dalle ultime decadi del Novecento a oggi, risulta evidente quali siano stati i cambiamenti a livello planetario, dal punto di vista macroeconomico, sociale e culturale esercitati dagli effetti combinati di globalizzazione, interconnessione e dematerializzazione.
L’informatizzazione del mondo e l’avvento di una rete condivisa globale sono spesso indicate come rivoluzioni copernicane all’interno della storia umana ma, viste dalla distanza, risultano solo essere le fasi embrionali di un processo ben più vasto e radicale di cui le I.A. saranno protagoniste.
Le nuove tecnologie che avvolgono il nostro presente e lo plasmano hanno un prezzo da pagare, sempre più evidente, un “carburante” senza il quale non sarebbe possibile il loro funzionamento: i dati.
L’accelerazione tecnologica a cui stiamo assistendo si basa essenzialmente sulla disponibilità di un’infinità di informazioni su qualsiasi evento (Big Data), in un processo alimentato dal nostro contributo, volontario o non.
Il mondo e l’uomo smaterializzati diventano informazioni, quindi dati; tale risorsa infinita viene ottimizzata e resa spendibile all’interno dei processi di auto-apprendimenti delle macchine (il machine learning e più recentemente il deep learning).
Le I.A. non sono venute dal nulla: le conosciamo bene perché sono per certi versi un nostro simulacro basato sui dati che forniamo loro.
Aggredire il lavoro
Le analisi e le argomentazioni in materia di I.A. contengono sempre una forte dose di scetticismo, cosa che non era accaduta nella fase eroica di sviluppo del web, dove vi era un pionierismo desideroso di raggiungere quella che era vista come una frontiera.
Con le I.A. l’approccio cambia e a farsi strada è una diffidenza dettata da un nostro istinto primordiale: quello di una specie dominante che nutre il timore di venire scalzata dal gradino più alto della scala evolutiva.
Ciò che ci fa paura è, come sempre, l’idea che un prodotto dell’attività cognitiva umana possa in qualche modo prendere il sopravvento sul proprio creatore.
Questo timore, per quanto irrazionale, contiene un indizio di verità; l’errore sta nel formulare in che modo le I.A. attaccheranno l’umanità.
Non è l’uomo fisico, sostanziale, fattivo che in un futuro ormai molto prossimo verrà attaccato da macchine dotate di un’intelligenza che le rende senzienti (oppure simula un’autocoscienza) bensì l’attività principale che distingue l’uomo dagli altri mammiferi: il lavoro.
Le I.A. aggrediscono e dissolvono la capacità lavorativa umana; e lo stanno facendo qui, ora, sotto nostra direttiva.
Questo è il primo e fondamentale paradosso da rilevare: l’uomo decide di distruggere volontariamente ciò che lo definisce come essere umano per rendere maggiormente efficienti i sistemi di produzione.
Quando Martin Heidegger, uno dei filosofi più eminenti del Novecento ci dice che «La tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare» intende esattamente questo: la tecnica alimenta se stessa, sopravanza l’uomo ai fini di rendere sempre più efficace il proprio dominio.
Solo attraverso questa chiave di lettura è possibile capire perché stiamo volutamente alimentando qualcosa che mette a repentaglio l’attività suprema dell’uomo che gli ha permesso di plasmare il mondo.
Viviamo calati in un contesto, in un mondo e in una storicità dove l’ottimizzazione dei processi tecnici ha sempre avuto la precedenza sulle prerogative umane e, adesso che la tecnica inizia ad andare oltre le nostre possibilità di controllo, proviamo uno sbigottimento improvviso.
Homo Laborans, Homo Adiutor
Come ormai anche l’opinione pubblica si è accorta, l’utilizzo delle I.A. è destinato a provocare una riduzione definitiva e irreversibile del numero di persone occupate e genererà un fenomeno drammatico che difficilmente sarà arginabile in tempi stretti dalle istituzioni.
Il mondo del lavoro subirà una bipartizione brutale, con poche eccezioni: da una parte un numero ristretto di knowledge worker, dall’altra una massa di individui sottopagati oppure non utilizzabili nei sistemi economici più avanzati.
È ormai assodato che nei prossimi dieci anni più della metà dei lavori, sia manuali che intellettuali potrà essere sostituito da piattaforme digitali automatizzate.
Anche il sacrario dell’Arte, che si riteneva inviolabile, è sotto attacco e, per assurdo, sembra che sia il primo destinato a capitolare rovinosamente, soprattutto quello riguardante le forme artistiche popolari.
Quale posto può avere un disegnatore, un musicista oppure un compositore in un mondo dove è già possibile adesso creare immagini, musica e testi semplicemente fornendo un input a un sistema automatico?
Anche qui l’efficacia tecnica, che assume i tratti funzionali al paradigma capitalista del “tutto, subito ed economico”, sopravanza e squalifica l’uomo.
Certo, si svilupperanno mestieri, in parte sostitutivi, in parte complementari o aggiuntivi, resi necessari dalle nuove tecnologie che sostituiranno i lavori tradizionali.
Assisteremo però a uno spostamento di categoria dal quale l’uomo non potrà più tornare indietro: l’homo laborans diverrà nella maggiore dei casi homo adiutor ossia l’uomo che assiste la macchina mentre questa produce.
Probabilmente nasceranno impieghi che oggi non riusciamo a immaginare, in settori che si svilupperanno di conseguenza e che saranno legati a esigenze anch’esse non prevedibili attualmente.
Tuttavia, il rapporto tra coloro che verranno defenestrati dalle I.A. e coloro che verranno impiegati nel nuovo paradigma del lavoro, prevederà una sproporzione tale da generare uno shock economico e sociale su larga scala.
Se non si realizza che l’algoritmo della disoccupazione è destinato a divenire una problematica globale con cui fare i conti, il rischio questa volta reale e non immaginario è che l’apocalisse del lavoro coincida con un’apocalisse sociale.
In questo malaugurato caso non saranno le macchine a sollevarsi contro gli uomini, bensì il contrario.
La scienza che condanna è quella che salva
Arrivati a questo punto resta una domanda a cui rispondere: cosa può salvare il lavoro umano dall’aggressione delle I.A.?
La stessa scienza con la quale abbiamo creato e impresso loro un cammino evolutivo.
Nelle spesso frettolose analisi date in pasto all’opinione pubblica dai media ci si dimentica spesso che la scienza non è un’attività puramente oggettiva che ci restituisce solo verità incontrovertibili sul mondo.
La ricerca scientifica è anche e soprattutto il frutto di scelte e interessi economici, politici e anche, per assurdo, metafisici (come le religioni).
E poiché il progresso scientifico, mai come oggi, è indissolubilmente legato al mercato, all’economia e al dogma della finanza, le sue applicazioni sono spesso favorite (o impedite) dagli interessi in gioco e dalle possibilità di ricavarne un vantaggio nei fattori sopra elencati.
Questo “guinzaglio utilitarista” con cui il capitalismo dominante tiene controllato il progresso scientifico non ci mette totalmente al riparo dagli effetti incontrollati generati da un utilizzo intensivo delle I.A. nel mondo del lavoro però può in qualche modo garantire che verranno finanziate sempre più ricerche che favoriscono un progresso inteso come vantaggio economico e politico.
Di conseguenza, a ogni tentativo di spingere la scienza e le sue applicazioni in una direzione che favorisca interessi particolari incuranti dell’impatto generale, si opporrà un tentativo contrario che lo frenerà o tenterà di spingere in una direzione opposta.
Una deterrenza scientifica, una sorta di Principio di Clausewitz però declinato a una proliferazione controllata, razionale e compatibile con il lavoro umano delle intelligenze artificiali.
Tutto questo, viene da se, non è un processo che ci vede come meri spettatori; l’uomo per preservare se stesso deve costantemente cercare aggregati economici e politici che tengano in vista l’interesse della comunità, consorzi umani che favoriscano la creazione di un’etica condivisa e sostenibile nello sviluppo di I.A.
In ogni caso, non è distruggendo oppure ostacolando le applicazioni che sostituiscono il lavoro umano con le macchine che favoriremo una società migliore.
Non è “staccando la spina” alla ricerca scientifica a al progresso tecnologico che risolveremo il problema del prosciugamento del lavoro.
Il destino dell’attività lavorativa coincide con il destino dell’uomo: un problema ineludibile che va affrontato in termini razionali.
E ciò può essere fatto solo se non ci si pone in modo passivo, osservando ciò che avviene con un atteggiamento deterministico poiché tutto ciò, prima o poi, ci riguarderà in prima persona.
Questa “stabile provvisorietà” tra uomo e macchina non è destinata a durare per sempre.